Avvenire 21/03/2010, Pagina A02
LE ASSOLUZIONI A NAPOLI, IL SUICIDIO DI NUGNES, IL VERO RUOLO DEI PM
Se le vittime precedono il crollo di un castello d’accusa
DANILO PAOLINI
Due lievi condanne con pena sospesa, quattordici tra assoluzioni e proscioglimenti, una morte per suicidio. Se un osservatore superficiale dovesse valutare l’«efficienza» di un ufficio giudiziario (concetto, questo, molto caro sia alla magistratura associata sia all’attuale maggioranza di governo, seppure in chiavi diverse) da certi risultati, darebbe alla procura di Napoli un 'voto' insufficiente. Tragicamente insufficiente, nel caso appunto del processo napoletano denominato «Global Service», che dopo essere stato ampiamente celebrato sui giornali è collassato davanti al giudice per l’udienza preliminare in una pioggia di «non luogo a procedere» e di «il fatto non sussiste». Si potrebbe anche ricordare come sono andate a finire, sempre a Napoli, le inchieste sulle telefonate tra Agostino Saccà e Silvio Berlusconi e quella su Guido Bertolaso in materia di emergenza rifiuti: archiviata la prima, dopo essere stata trasferita a Roma per competenza territoriale; sfociata, la seconda, in un processo per un reato contravvenzionale punito dal codice (se verrà dimostrato) con una multa. Ovviamente, un giudizio fondato esclusivamente su tali elementi sarebbe ingiusto e privo di buonsenso: basterebbe citare i numerosi colpi messi a segno nella lotta alla camorra (ma non solo) per comprendere i grandi meriti e le indubbie capacità investigative che la stessa procura partenopea può vantare. Ma la provocazione, consapevole, serve per allargare il raggio della riflessione a un paio di conti che non tornano, tra i tanti, nel quadro clinico della nostra giustizia. Il primo riguarda proprio la sovraesposizione mediatica di certe indagini: appena scattano le manette preventive (sembra che senza non si possa più indagare), la fase istruttoria si consuma già sui mezzi di comunicazione. Il dibattimento viene saltato. Si passa, magari con l’ausilio di verbali e d’intercettazioni sbobinate, direttamente alle sentenze, tutte di condanna. Questa, almeno, è la percezione della gran parte dell’opinione pubblica. E questa è la percezione che deve aver avuto Giorgio Nugnes, l’ex-assessore del Comune di Napoli: si è impiccato alla fine del 2008, dopo aver saputo del suo coinvolgimento nell’inchiesta «Global service» e del suo probabile, imminente arresto. Oggi sarebbe il quindicesimo scagionato, invece è già nell’elenco delle troppe vittime delle distorsioni spettacolari della giustizia. Si dirà: i pm hanno fatto il loro lavoro di pubblici accusatori, poi il giudice terzo ha emesso il suo verdetto. Tutto a posto, quindi. Invece no, eccoci all’altro conto che non torna: non è la prima volta che impianti accusatori elefantiaci si riducono a niente o quasi. In particolare, non è la prima volta che il reato di associazione per delinquere si dissolve alla prova dei fatti. Ma non si può far finta d’ignorare che ipotizzando il reato associativo si ottengono più facilmente autorizzazioni a intercettare e ad arrestare. Beninteso, in uno Stato di diritto nessuno può augurarsi inquirenti timidi o frenati nel prendere le iniziative che ritengono necessarie. Tuttavia, sono richieste anche a chi indaga la misura e la scrupolosità proprie del giudice. Nel nostro ordinamento, ancora oggi, prima di essere una parte del processo il pm è un magistrato: esercita l’azione penale e sta in giudizio nell’interesse pubblico, cioè di ciascuno di noi. E quando pensa di non avere raccolto gli elementi per chiedere un processo o una condanna, è tenuto a sollecitare l’archiviazione o l’assoluzione. Senza forzature procedurali, possibilmente. Del resto, l’appartenenza alla giurisdizione dei procuratori della Repubblica e dei loro sostituti è sempre citata, dagli avversari della separazione delle carriere dei magistrati, come la prima garanzia per tutti i cittadini. Anche per quelli indagati o imputati.
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